Piccola apnea
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Ieri, verso ora di pranzo, ho guardato fuori dalla finestra e mi sono accorto che stava nevicando. I pochi fiocchi che scendevano erano al tempo stesso svelti e pigri, come se cercassero di sbrigare in fretta una faccenda senza farsi notare troppo. Durante la mattina, attraversando le avenue, il vento gelido mi aveva preso alla sprovvista, ricordandomi a schiaffi che l’inverno a New York è una cosa seria. Imprecando contro il mio maglione troppo leggero e il cappello che non mi riparava quanto avrei voluto, mi sono goduto l’inizio brutale della stagione che qui mi è più familiare, quella che mi ha fatto venire voglia di tornare e di restare. Più tardi, guardando la neve cadere per pochi minuti, ho salutato l’autunno con la stessa fretta che animava quei fiocchi.
Dopo aver cambiato lato dell’isola, sto provando a prendere confidenza con l’Hudson River. Vado a passeggiarci vicino ogni volta che posso e ogni volta mi sorprendo nel vederlo così ampio e così calmo, così diverso dall’umorale East River. Quando fisso il George Washington Bridge in lontananza, non riesco a trattenermi dallo spingermi oltre con lo sguardo, osservando il panorama svanire in lontananza, immaginando il nord.
Nel frattempo dicembre si avvicina come una resa dei conti. Chiudere l’anno per me è un esercizio faticoso, per cui ho bisogno di prendere in prestito la maschera della convinzione. Questo mese è sempre una piccola apnea a cui mi dedico con meticolosità, al termine della quale sento la bruciarmi dentro la voglia di risalire e di tornare a respirare, per poi godermi il leggero giramento di testa che mi avvisa che la fine è arrivata, così come il nuovo inizio.
Durante questa immersione, vedo nell’acqua attorno a me idee, storie, aspettative, delusioni, cambiamenti, arrivi, perdite. Mi dico che è tutta una questione di respirazione, che alcune di queste cose andranno via e che altre resteranno, se vorrò e se potrò.
In tutto ciò, vorrei tornare a scrivere la storia nuova, ma mi tengo aggrappato all’altro romanzo già finito da un pezzo. Mi dico che ha bisogno di tempo, ma è più corretto dire che sono io ad averne bisogno, perché devo accettare che il momento della scrittura di quella storia è finito. Spero che i venti freddi di dicembre mi diano la spinta che mi serve per convincermi a lasciarla andare, così da farla iniziare altrove.
Tu, invece, verso cosa cammini? Raccontami la fine del tuo autunno e l’inizio del tuo inverno.
A presto,
Andrea
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🗽 Newyorkesità + 📚 Che mi leggo
La scorsa settimana ho avuto la fortuna di andare alla presentazione del libro di
(Marta Ciccolari Micaldi) qui a New York. Se ti piacciono i racconti sugli Stati Uniti, ti consiglio di leggere e ascoltare tutto ciò che lei ha da dire. Il suo “Sparire qui” è stato un viaggio che mi ha fatto provare parecchie emozioni e parte proprio da New York, per poi attraversare l’America (o forse per farsi attraversare da essa).L’autrice dedica alla città due capitoli importanti del libro, descrivendola con pagine intense. “Sparire qui” è una lettura preziosa e sento che la terrò con me per un po’ e che tornerò a leggerla quanto ne avrò bisogno, come una bussola da tenere nello zaino e da consultare per decidere dove andare, per perdermi e ritrovarmi.
Siccome il sonno ancora non arrivava, lasciai perdere New York come appariva nei miei ricordi e mi misi in ascolto di New York come suonava allora. Le sirene della polizia - e da lì il mio ricordo dell’arresto - ma ancor più quelle dei pompieri e delle ambulanze, un gioco per esperti saperle distinguere senza affacciarsi alla finestra; lo sferragliare della metropolitana dalle grate dei marciapiedi, se sei abbastanza sfortunato da dormirci sopra (e se stai a Manhattan probabilmente lo sei); il motore di uno spurgatore di tombini e il generatore del chiosco di fiori all’angolo; i condizionatori, i maledetti condizionatori di New York che arrivano direttamente dalla preistoria con tanti saluti al progresso, ai silenziatori e alla sostenibilità ambientale; il camion della spazzatura, il camion dei segnali stradali, il camion della pulizia delle strade, il camion dei rifornimenti di frutta e verdura, il camion dell’allestimento transenne, il camion della scenografia di un teatro o di un set cinematografico, il camion delle biciclette a noleggio; gli ubriachi, che ci sono in tutte le città del mondo e vuoi che non ci siano anche qui; i passi svelti di chi va a lavorare e quelli rilassati di chi torna a casa; le parole in lingue che non conosci e i saluti dei doormen; i cinguettii degli uccelli e le eliche degli elicotteri, sperando per la loro incolumità che non debbano condividere la stessa porzione di cielo; i clacson dei tassisti, le grida dei senzatetto, i baci degli innamorati, i passi degli scrittori.
Il suono di New York di notte è inconfondibile, neanche per un secondo puoi pensare di essere altrove.
Grazie Andrea, è così bello sentire che la mia storia tocca e comprende anche quella degli altri. Soprattutto di persone come te, che l’America la vivi e la respiri ogni giorno, con un’intensità ben superiore alla mia! Spero che tu possa sparire qui ancora tutte le volte che vuoi, grazie di cuore ♥️