Danza ferma
Bentornatə o benvenutə a Posta Lenta, la newsletter per chi si distrae guardando fuori dal finestrino e salta volentieri le fermate.
Ci sono cose tra cui semplicemente non riesco a scegliere. Quei presunti opposti davanti a cui dovresti avere le idee chiare e invece entrambi ti sembrano irrinunciabili. Preferisci i romanzi o i racconti? Chitarra acustica o chitarra elettrica? Città o campagna? Gnocchi o ravioli? Cose così. Preferire diventa rinunciare, che diventa e se poi?, che diventa ma a questo punto tutto e due.
In questo inverno newyorkese sento spesso la mancanza della campagna, io che tanto campagnolo non sono. Sai quando sei in campagna e ti senti irrimediabilmente di città e quando sei in città e ti senti di campagna? Ecco. La non appartenenza temo sia una sorta di scappatoia, magari un meccanismo di difesa, che impone la fretta di scappare. Invece qui vogliamo prenderci il tempo anche per l’indecisione, giusto?
C’è un posto qui a New York a cui sono affezionato, il Brooklyn Botanic Garden. Questa è la città per antonomasia, grattacieli e inquinamento acustico, eppure contiene ancora spazi per rispondere al bisogno di altro. Il giardino botanico è uno di quegli spazi in cui allontanarsi e prendersi il tempo di dimenticare. Pur incastrato nella città e confinante con strade molto percorse, al suo interno si assiste e si partecipa a una pace miracolosa. Il silenzio è un regalo inaspettato, ti viene da chiederti: e ora cosa ci faccio?
Io ci ho camminato tra i sentieri e i ponticelli, coccolato dal giardino in stile giapponese e da un cielo azzurro di cartapesta, per arrivare fino alla collezione di bonsai. Qui all’entrata ad accogliermi c’è “Fudo”. La leggenda dice che, già vecchio di qualche secolo, fu portato via dal suo luogo d’origine, sulle montagne nei pressi del fiume Itokawa, da un anziano di nome Tahei. Era il 1858. Entrò a far parte della celebre collezione del bonsaiman Kyuzo Murata, per poi morire nel 1971, qualche mese dopo aver lasciato il Giappone. Contando i suoi anelli, si stima che abbia avuto circa ottocento anni (!). Guardandolo, è facile farsi ipnotizzare da questa sua danza ferma. Mi provoca tristezza, ma al tempo stesso serenità, grazie alla sua silenziosa dignità. Mi dice che può esserci vitalità anche nella morte (altra coppia di presunti opposti).
In questi giorni sono tornato a lavorare al nuovo romanzo. L’ho già rimaneggiato diverse volte, ma fin qui credo di essermi tenuto a distanza di sicurezza, di aver nuotato sempre dove si toccava. In questa storia la musica ha un ruolo centrale, eppure - grazie alle indicazioni preziose della mia editor - mi sono reso conto che il volume delle pagine era troppo basso, se non proprio spento. Per riscrivere, quindi, sto ascoltando molta musica, il che mi ha fatto pensare a un’altra cosa. Per gran parte della mia vita la musica è stata una componente molto importante. A dieci anni, costretto in casa dalla febbre insieme a mia sorella, scoprii MTV. Era il 2000 e passai giorni e giorni a guardare video musicali, classifiche, imparando a memoria All the small things e giurando fedeltà ai blink-182. Mettemmo persino la sveglia alla televisione, che ogni mattina si accendeva da sola già sintonizzata su MTV, dando una sigla ai miei risvegli pre-adolescenziali.
Ho trascorso l’adolescenza con i cd e le cuffiette, poi con i lettori mp3, poi a suonare la chitarra, costruendomi la mia colonna sonora pezzo dopo pezzo. Anni e anni a scoprire canzoni, artisti e band, a riconoscermi, finché qualcosa è cambiato. Non so dire quando, né come o precisamente perché, fatto sta che ho abbassato piano piano il volume, riducendo la musica a un rumore di fondo, distante. Paradossalmente, per accorgermene ho dovuto scrivere un romanzo fatto (in teoria) di musica. Facendolo, mi piace pensare di aver risposto inconsapevolmente a un messaggio lasciato da me stesso, magari dal me sedicenne. Tra tutte le canzoni che ascolto in riproduzione casuale per dare il giusto sound al romanzo, ne pesco una da condividere con te: Senza vento dei Timoria. E tu ne hai una da condividere con me?
A presto,
Andrea
P.S. Il 10 febbraio Posta Lenta compie un anno. All’inizio non sapevo come sarebbe diventata e oggi non so come sarà tra un anno. Però so voglio ringraziarti per la fiducia, per la compagnia e per avermi accolto nella tua preziosa casella, permettendomi di sdebitarmi dell’ospitalità facendo ciò che amo di più: raccontare.
Passeggiata in edicola
Ogni storia ha la sua ricetta e ogni ricetta ha la sua storia. Nelliamoci e Zazie, creatrici e curatrici di Gnambook, due domeniche al mese “cucinano” i libri e stavolta mi hanno fatto un regalo speciale: un menù di storie per Posta Lenta. Buon appetito!
🍽️ Cucinare i libri: un menù di Gnambook
Andare più piano non significa arrivare in ritardo. Andare più piano significa restituire le città alle persone e ridisegnare gli spazi per loro, sottraendoli così alle automobili. Ridurre il limite di velocità vuol dire anche affrontare una volta per tutte la retorica della produttività a tutti i costi, intravedere altre strade e modelli differenti.
🚗 Cos’è davvero una “città 30” (Il Post)
La “comodità” di lavorare da casa. La “pigrizia” che ti tiene a casa, dandoti la scusa per non uscire. Quella strana ansietta che provi quando ti trovi di nuovo in mezzo alla gente. L’isolamento imposto dalla pandemia è rimasto nelle nostre vite, alterandole. Tornare “come prima” si è rivelata un’illusione, perciò è importante riflettere sulle abitudini della nostra nuova normalità, a partire dalla solitudine.
👥 Come disimparare a vivere in solitudine, Arthur C. Brooks, trad. Andrea Sparacino (Internazionale )
Poi con calma me lo guardo
Quando si ripianta un bonsai, possono passare fino a tre anni prima che si formino nuovi radici e cinque anni prima che torni a crescere. Ho sempre pensato che fossero “solo” alberi in miniatura, invece sono un clamoroso esempio di dedizione, pazienza e fiducia.