Bandiere
Bentornatə o benvenutə a Posta Lenta, la newsletter per chi ama l'estate alle sette di pomeriggio.
Ventenne, imparavo (o credevo di imparare) l’amore, il sarcasmo e New York attraverso i film di Woody Allen. Tra i tanti, ricordo le detonazioni interiori che mi provocarono “Manhattan” e “Io e Annie”, dando modelli e direzioni alle mie idee ancora confuse. All’inizio della pandemia, credo per trovare rifugio nelle cose certe del passato, ho rivisto “Io e Annie”. L’ho trovato uguale e diverso, a posto e fuori posto. Mi sono domandato se fossi cambiato più io, il film o ciò che lo circonda e lo ha circondato. Fatto sta che, nonostante i cambiamenti, anche oggi è da quelle parti che sono andato a rifugiarmi per far fronte ai miei momenti di incertezza.
Ho camminato per l’Upper East Side, a Sutton Place, alla ricerca di quella panchina da cui si guarda l’East River e il Queensboro Bridge (che l’ignoranza dei miei vent’anni aveva automaticamente fatto diventare il Brooklyn Bridge). Non so cosa stessi cercando e non so nemmeno cosa abbia trovato. Di certo niente che mi abbia fatto rivivere la brillante leggerezza di quei film o le sensazioni che ho provato guardandoli. Davanti a me c’era solo il fiume, solo un ponte, solo New York.
Si dice spesso che questa città susciti l’impressione di vivere in un set cinematografico, di provare un senso di riconoscimento. Quello scorcio assomiglia a, lì forse è dove hanno girato quella scena, questo vicolo sembra una tavola di Spiderman, questo cielo fa pensare a Batman. Qui è più facile trovare posti che ti appartengono di riflesso, fai fatica a ricavarti qualcosa di tuo, perché tuo non è e non sarà mai. Anzi, io finisco sempre sballottato tra le onde, tra l’appartenenza e l’indifferenza, l’accoglienza e il rigetto. Ogni piccola pretesa mi fa sentire sciocco, senza il diritto di piantare bandiere, anche se nel frattempo New York ne pianta una marea dentro di me.
In tutto ciò, non scrivo più da un pezzo ed è diventato più facile smarrire la motivazione piuttosto che sforzarmi di ritrovarla. Poi però succedono le cose semplici, quelle che, se lo vuoi, spengono gli incendi dentro. Succede che ricomincio a correre e che una domenica mattina ho attorno a me strade vuote e un cielo di un azzurro quasi beffardo. Mentre corro, guardo i palazzi alti attorno a me e mi sembrano un abbraccio spigoloso ma affidabile. Con l’aria delle sette di mattina ancora fresca che pizzica la maglietta umida di sudore, mi fermo in mezzo alla strada e ho la sensazione che potrei attraversare tutta Manhattan con lo sguardo e che lei mi lascerebbe fare.
Dura qualche secondo, ma sento che è un momento mio, di quelli che pensavo di aver smarrito. Niente locandine, scene di film o set cinematografici. Ci siamo io e l’asfalto sotto le scarpe da ginnastica, io e la città mezza addormentata. Per un po’, sono riuscito a seminare la frustrazione per le pagine non scritte, i dubbi, i fastidi e le preoccupazioni. So che mentre aspetto qui in mezzo alla strada mi raggiungeranno di nuovo e penso che dovrò imparare a correre in loro compagnia, sforzandomi di dar loro un po’ di filo da torcere. Ogni tanto avere il fiatone può diventare una soddisfazione, non credi?
A presto,
Andrea
PS: Una bandierina forse posso piantarla. Sono stato allo stadio dei Mets per vedere la mia prima partita di baseball. È stato molto divertente e ho mangiato un gelato dentro un piccolo cappello.
Passeggiata in edicola libreria
Grazie a chi ha risposto al sondaggio della scorsa newsletter sugli articoli e i video. Conto di ricominciare a segnalarti ciò che mi colpisce, ma poiché non voglio condividere niente solo con l’obbligo di doverlo fare, oggi anziché articoli ti propongo due letture che ho fatto nelle scorse settimane e che hanno fatto una bella eco dentro di me.
La prima è “La ferrovia sotterranea” di Colson Whitehead (link affiliato). Vincitore del Pulitzer e del National Book Award, in Italia è uscito nel 2017, pubblicato da SUR e tradotto da Martina Testa. Racconta la storia di Cora, una schiava nella Georgia della prima metà dell’Ottocento che attraversa il Paese alla ricerca della libertà. Le sua è un’avventura che lacera, dove la speranza entra ed esce dalle pagine. Mi ha ricordato che i grandi romanzi sono grandi viaggi.
La seconda lettura che ti consiglio è “Parole nascoste” di Arianna Montanari (link affiliato). La protagonista condivide un racconto che fa male e che disturba, dove la morte del padre coincide con la ricerca: della persona, dell’uomo, del figlio, dell’essere figlie e figli. Per diversi aspetti mi ha fatto pensare a “La più amata” di Teresa Ciabatti (link affiliato). Mi ha ricordato che certe domande e certe risposte si trovano solo scendendo nella cantina dentro di noi, sbirciando proprio negli scatoloni che ci fanno più paura.